Quest’anno ho passato davvero tante ore là fuori. Ho perfezionato tantissimi aspetti del mio allenamento e della mia alimentazione. Ho fatto passi avanti veri, concreti. Posso dire che sono felice del percorso che sto facendo, perché sto riuscendo a fare cose che qualche anno fa mi sembravano impossibili.
Ho sempre sognato di fare bene nelle gare lunghe, le ultra. Ho sempre pensato che fossero il mio terreno naturale. L’ endurance, la testa, la capacità di stare là fuori tante ore… erano tratti che sentivo appartenermi. E per questo, da tempo, ho scelto di dedicarmi a questo tipo di prove.
Solo che… qualcosa non torna. Non è mai tornato del tutto.
Negli ultimi due anni, ogni volta che ho affrontato un’ultra importante, è successo qualcosa. Ma non qualcosa di semplice da individuare. Non si trattava di errori evidenti. A volte mi ammalavo pochi giorni prima, altre volte lo stomaco si bloccava senza motivo. Pensavo fosse la dieta, l’integrazione, l’allenamento, il tapering. E allora lavoravo, aggiustavo, miglioravo.
Ma la verità è che, anche quando tutto sembrava a posto, il problema si ripresentava.
E la cosa assurda — che dice tanto, forse tutto — è che l’unica vera gara molto lunga in cui mi sono sentito davvero bene è stata l’Adamello Ultra Trail del 2021.
100 chilometri, 6400 metri di dislivello.
E io, al massimo, prima di allora avevo corso 40 chilometri.
Ero praticamente un ragazzino, inesperto, “impreparato” nel senso classico. Ma quella volta è successo qualcosa di raro.
Sono partito con leggerezza, con l’idea di vivere un’avventura. Senza pretese, senza calcoli.
Ho sorriso per quasi tutta la gara. Non ho avuto crisi. Non mi sono mai sentito veramente stanco.
Alla fine, mi sembrava quasi di poter ripartire per un secondo giro.
E non è che allora curassi ogni dettaglio come faccio oggi. Lontanissimo da tutto ciò. Ma ero libero.
E il paradosso è che oggi, con tutto il lavoro fatto, con i chilometri accumulati, con la dedizione assoluta che ci metto… potrei fare il mio piazzamento in qualsiasi gara.
Eppure, è come se si fosse innescato un circolo vizioso.
Un circolo vizioso dettato dalla mia ossessione di voler migliorare e andare sempre più forte.
Qualcosa che non viene solo da fuori, ma che si attiva dentro di me. E mi blocca.
Quest’anno ero pronto. Davvero.
Tutte le gare di avvicinamento erano andate benissimo.
L’allenamento era stato solido, costante. Avevo ottenuto ottimi risultati. Avevo testato la mia condizione con atleti molto più forti di me durante le settimane passate a Cortina. Mi sentivo bene, in forma, concentrato.
L’alimentazione era calibrata al millimetro. Ogni particolare era stato curato con la mia solita attenzione maniacale.
Eppure, anche questa volta qualcosa si è rotto. Ma non fuori. Dentro.
Un’ora prima della partenza della Lavaredo Ultra Trail, il mio stomaco ha iniziato a chiudersi. Come una morsa. Non sono riuscito a bere neanche la prima flask.
Sono partito teso, come una corda di violino.
Nei primi tornanti fuori Cortina sentivo il corpo spegnersi.
Lo stomaco completamente bloccato. Nessun liquido assorbito.
Ho provato ad andare avanti, rallentando, aspettando che qualcosa si sbloccasse, ma alla fine mi sono dovuto fermare.
Il paradosso?
Appena mi sono fermato, lo stomaco si è sbloccato.
Ho mangiato una pizza gigante.
Come se il corpo stesse solo aspettando quel momento per dire:
"Adesso sì, possiamo stare bene."
Eppure, questa volta non ero arrabbiato.
Non ho cercato colpe, né dentro né fuori. Né nel meteo, né nell’energia cosmica.
Non mi sono sentito vittima di qualcosa.
Ho solo osservato.
E ho capito — forse per la prima volta — che tutto quello che avevo cercato di controllare in questi anni (alimentazione, carichi, riposi, test, attrezzatura…) non era la radice del problema.
Perché il problema, probabilmente, non è mai stato nel corpo.
È nella mente.
Nel modo in cui arrivo a questi appuntamenti.
Nel peso che gli do.
Nella necessità di dimostrarmi qualcosa più che viverla.
E il paradosso è ancora più beffardo: proprio in queste gare sento che avrei qualcosa da dire, qualcosa da dare.
Ma è come se il mio sistema nervoso, ogni volta, mettesse in campo una difesa.
Un sabotaggio silenzioso.
Una protezione da qualcosa che neanche so bene cosa sia.
Solo qualche settimana fa ho corso gare dure, tecniche, lunghe. Le ho gestite bene. Mi sono divertito. Ho avuto ottimi risultati.
Eppure, nelle gare che contano davvero per me, quelle che “valgono l’anno”, mi blocco.
Non riesco nemmeno a vivermele.
Non riesco nemmeno a cominciare.
Non scrivo queste righe per avere risposte.
Ma per raccontare qualcosa che sento importante.
Perché il mio percorso non si è interrotto: è solo entrato in una fase più profonda, più difficile, ma forse anche più vera.
Sto imparando che non sempre si tratta di aggiungere chilometri, o perfezionare i dettagli.
A volte si tratta di togliere.
Di lasciare andare.
Di smettere di voler controllare tutto.
Ed è qui che si apre anche un altro tipo di riflessione.
Questa costante ricerca del miglioramento, questa attenzione quasi ossessiva ai dettagli, è ciò che mi ha permesso negli anni di crescere tanto sul piano tecnico – nell’allenamento, nell’alimentazione, nella gestione. È lo stesso approccio che porto anche nel mio lavoro con gli atleti che seguo, dove cerco sempre di costruire percorsi precisi, sostenibili, calibrati.
È una parte di me che riconosco e a cui tengo molto.
Ma proprio per questo, sento anche il bisogno di scrivere queste righe: per offrire uno spunto a chi, magari come me, tende a guardare solo i numeri, i grafici, i dettagli… e un po’ meno tutto il resto.
Non perché quei dati non siano importanti – lo sono, eccome – ma perché non sempre la risposta si trova lì.
A volte bisogna cercarla altrove.
Forse il sentiero, quello vero, non è fatto solo di rocce, salite e ristori.
Forse il sentiero vero è quello dentro di me.
E forse quello che manca non è là fuori. Ma è pronto per essere trovato.
Oltre a tutto questo pensiero qua, voglio ringraziare di cuore tutte le persone che a Cortina mi hanno fermato per una chiacchiera o per una foto.
E voglio ringraziare i ragazzi con cui mi sono allenato — Alessio, Alessandro, Giovanni, Luca, Manlio, Teo, Fabio, Alberto — per la compagnia, la fatica condivisa, e le parole che mi hanno detto.
È bello vedere che in questo mondo ho trovato parecchie persone amiche, che credono in me e ci tengono davvero a quello che sto facendo.
Grazie mille a chi mi ha chiamato in questi giorni solo per ricordarmi che, comunque, il lavoro che faccio si vede.
E niente… ora penserò a cosa fare.
Perché qualcosa è cambiato. O sta cambiando.
Grazie a chi mi ha supportato in questo lungo progetto, a chi continua a credere nel valore del processo, e a chi, magari da oggi, inizierà a camminare o correre insieme a me.
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A presto,
Filo
Ciao Filippo, il segreto è veramente lasciare andare le cose. Io come te soffro tantissimo nelle gare importanti ma ho imparato a vivere cercando la pace dentro di me prima della partenza. Premetto non sono una campionessa ma un amatore, ma somatizzo tantissimo quando si tratta di qualcosa a cui tengo. Ho iniziato a fare degli esercizi di respirazione presi dal mondo dello yoga e a ripetermi che comunque vada, sto facendo questo viaggio prima di tutto per me stessa.. cerca di porre meno attenzione al cronometro e viviti il qui ed ora, focalizzarsi troppo su tempi e quello che ci sarà dopo ti fa perdere la concentrazione sullo star bene e mette il tuo corpo molto sotto pressione. In bocca al lupo per le prossime corse. Ps Adamello per me è una tra le gare più belle in Italia